Novembre 2016
Era l’11 Gennaio 2000 quando American online (AOL) acquistò Time Warner la più grande società media del mondo.
La new economy, ovvero l’economia basata sulle nuove tecnologie e sulle vendite via internet, stava per vincere sull’Old Economy considerata ormai obsoleta, quella basata sugli schemi tradizionali, sulla trasformazione delle materie prime o sulla commercializzazione di beni e servizi attraverso canali tradizionali.
In quel periodo crescevano i modelli di business più disparati e bastava aggiungere il suffisso “dot-com” per far accantonare gli schemi di valutazione delle imprese basati sull’analisi degli utili, del livello di indebitamento, delle quote di mercato potenziali; le nuove valutazione erano invece basate sulla capacità di penetrare il canale internet (allora praticamente non considerato dalla massa dei consumatori).
Le società dot-com, che non guadagnavano quasi nulla e certamente non erano in grado di coprire i costi, finanziavano le proprie spese con le sottoscrizione e con gli aumenti di capitale. La maggior parte degli investitori aveva abbandonato ogni prudenza, adottando i nuovi criteri di valutazione degli investimenti e ambendo a risultati insperabili solo fino a qualche tempo prima. In effetti in qualche caso ciò è effettivamente avvenuto, favorendo quella che poco tempo dopo si sarebbe rivelata una bolla speculativa. In quel periodo chi provava ad avvisare dei pericoli veniva immediatamente bollato come “antico” e non in grado di percepire il cambiamento epocale che stava avvenendo.
Nell’ottobre 2003, dopo il definitivo sgonfiamento della bolla speculativa, Time Warner cancellò AOL dal proprio nome. Si stava per avviare un periodo di crisi economica globale che avrebbe lasciato cicatrici profonde. Mentre in pochi festeggiavano risultati inattesi, facendo addirittura rivedere al rialzo le stime del numero dei High Net Worth Individual (i più ricchi di ogni paese), la maggior parte dei sogni dei neo-imprenditori sembravano tramontati.
Allora, però, nessun avrebbe immaginato che solo dopo una decina di anni si sarebbe assistito ad una ondata di nuove sigle, siti internet, app, modelli di business e quotazioni. Se nel 2000 la new economy era trainata dall’introduzione del canale internet che avrebbe avvicinato l’offerta alla domanda, adesso alle startup è assegnato il compito di innovare. Poco importa in quali settori, per quale segmento di mercato o sfruttando quale tecnologia.
Ciò che importa è portare novità al mercato. E’ talmente centrale il ruolo assegnato alle startup innovative per il sistema che è stato rapidamente istituito un Registro normato con un’apposita Legge, sono state introdotte misure per semplificare le operazioni di costituzione delle nuove società e per consentire loro di accedere al mercato dei capitali (crowdfunding, venture capital, etc). In pochissimo tempo si sono affacciati sul mercato un gran numero di operatori pronti ad offrire servizi di incubazione e assistenza finanziaria alle startup migliori.
Obiettivo creare un “unicorno” nostrano che come Facebook o Twitter potesse stravolgere le abitudini comportamentali dei cittadini di tutti il mondo raggiungendo in pochissimo tempo quotazioni da capogiro. Oggi nessuno sa come andrà a finire e se il sistema Italia sarà effettivamente in grado di produrre direttamente o indirettamente risultati in linea con gli investimenti e gli sforzi profusi; nonostante siano molte le similitudini tra l’attuale periodo e la new economy, sarebbe troppo semplicistico avvisare che c’è da aspettarsi che la storia si ripeta. Bisogna però far tesoro degli insegnamenti che provengono dall’esperienza del passato ricordandosi che anche le startup innovative per andare avanti saranno costrette a ripagare i propri conti attraverso le risorse necessarie generate autonomamente, attraverso il collocamento sul mercato del prodotto della propria attività e non ricorrendo all’infinito ad aumenti di capitale.
L’Osservatorio MF-Leanus, che analizza tutti i bilanci delle startup regolarmente iscritte alla sezione speciale del Registro Imprese, ha evidenziato non solo l’effettivo stato dell’arte di ciò che il settore ha prodotto sino ad oggi, ma soprattutto il profilo delle startup che sopravvivono. Oltre 6.500 imprese, un miliardo di Euro di Ricavi, Oltre 32.000 persone coinvolte a diverso titolo nella creazione di innovazione o come imprenditori o aspiranti tali o in qualità di dipendenti. Un esercito di persone a cui certo non si può dire che manchi la buona volontà o la voglia di mettersi in gioco. I numeri sembrano quelli dei migliori proclami ma un’attenta rilettura non può che stimolare alcuni dubbi. Solo 232 startup superano i 500.000 Euro di Ricavi, 565 superano i 100.000 Euro di Ricavi.
Solo 5 hanno superato la soglia dei 5Milioni di Euro rimanendo comunque ben lontane dai numeri degli unicorni sia come volume d’affari che come capacità di produrre reddito. Lo studio MF Leanus ha inoltre messo in relazione il settore startup con il resto dell’economia delle imprese, evidenziando che l’intero fatturato delle startup è pari a solo un terzo del fatturato di 45 medie imprese e che la proporzione tra il fatturato delle startup e quello delle imprese italiane è pari a 1 a 2000, quello esistente tra l’altezza del balcone di Giulietta e il Monte Everest.
Lo stesso studio mostra anche gli scarsi guadagni che i neo imprenditori devono mettere in conto. Considerando che i Ricavi medi per persona (Imprenditori o dipendenti) ammontano a poco più di 20.000 Euro e che per avviare una startup occorrono almeno 5 anni, sembrerebbe proprio che il profilo dell’imprenditore di successo sia molto più simile a quello degli “Iron men” capaci di correre per 100 KM nel deserto, che a quello del ragazzino intraprendente in grado di cambiare il mondo dallo scantinato o dal garage di casa. I numeri quindi inducono a far riflettere chi ha avviato o sta avviando un percorso imprenditoriale senza solide basi; potrà essere certo di aver investito sulla possibilità di vivere un’esperienza altamente formativa utile per il proseguo della propria carriera, ma che difficilmente taglierà il traguardo del successo, almeno pari a quello immaginato.
Ma allora chi guadagna con le startup? A chi conviene alimentare il sogno del successo per vie brevi in alternativa allo studio e alla gavetta? Si potrebbe pensare agli investitori che avrebbero individuato nel segmento una nuova “Asset Class”, ovvero una categoria di investimenti alternativi a quelli tradizionali ormai poco remunerativi. Anche se i numeri ufficiali non sono accessibili, considerando i tempi medi di gestazione necessari affinché una startup possa consolidarsi, è lecito immaginare che anche la categoria degli investitori, con qualche eccezione, potrebbe rimanere a bocca asciutta. Analogo ragionamento vale per le Banche, anch’esse attente al segmento ma senza alcuna aspettativa di ritorno significativo, almeno nel breve termine, ne sugli investimenti ne sugli affidamenti erogati che ammontano ad oggi a poco meno di 300 Milioni di Euro.
Nonostante tutti i numeri, l’esperienza e il buon senso spinga verso una revisione delle aspettative sul segmento sia come strumento di politica economica che come alternativa al posto di lavoro, gestori di fondi, consulenti, società di servizi, continuano a distribuire premi, a raccontare casi di successo e a proclamare i vincitori di premi per la migliore idea o per aver conquistato un round di crowdfunding di qualche centinaio di euro. Quello a disposizione dei professionisti è un micro mercato che vale circa 700 Milioni di Euro in spese per servizi vari da parte delle startup. Un valore modesto, ma certamente sufficiente a remunerare le poche centinaia di professionisti che molto probabilmente riescono ad ottenere dalla propria attività di offerta di servizi una remunerazione ben superiore di quella degli stessi startupper. La speranza è che non si verifichi nuovamente quanto accaduto all’inizio degli anni 2000 quando i promotori della new economy dovettero arrendersi difronte all’evidenza che i modelli tradizionali non potevano essere superati solo con qualche buona idea.
Nel caso delle startup la speranza è che sia il sistema Italia a guadagnarci grazie alle innovazioni che riusciranno a far breccia e contribuire allo sviluppo del paese; sistema Italia che forse farebbe meglio a investire sulle migliaia di imprese già avviate che hanno già dimostrato di saper stare sul mercato, di produrre ricchezza anche nel breve termine e di poter garantire un posto di lavoro ed un professione alle migliaia di talenti che il sistema scolastico ed universitario italiano è in grado di produrre e, perché no, la propria capacità distributiva e commerciale alle startup che sono state effettivamente in grado di produrre innovazione e che, per introdurre i propri prodotti sul mercato, hanno bisogno del brand e dell’organizzazione commerciale delle imprese di successo.
Startup. Osservatorio Milano Finanza Leanus II edizione (2016) from Alessandro Fischetti
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